Sono molto legato e devo molto al mio percorso di crescita professionale alla Libreria Cavour, ad Alberto Collacchi e agli anni trascorsi tra gli scaffali. Per questo ho voluto intervistare Francesco Collacchi, figlio di Alberto e attuale gestore della storica libreria di Frascati, ora Ubik. Ne è venuto fuori un racconto, più che un’intervista, e mi fa piacere riportarlo così come è uscito: schietto, passionale, intenso. Senza riproporre le domande, ma soltanto una bella storia.

La Libreria Cavour Ubik è a Frascati, in Via Cairoli 32, e merita decisamente più di una visita.

di Francesco Collacchi

La Libreria Cavour di Frascati è sempre stata un punto di riferimento nella mia infanzia, adolescenza e per tutta la vita adulta. Deve il suo nome alla sua prima sede, proprio a Via Cavour, anche se il mio primo ricordo, fin quando da piccolo scorrazzavo tra gli scaffali, è quello della seconda sede, sempre in via Cavour, più o meno dirimpetto.
Nel corso del tempo la Libreria si è spostata più volte, cercando di aumentare la qualità e gli standard che si addicevano ad una tipologia di libreria che pian piano si andava ad evolvere in enormi bookstores anche con servizi annessi: caffè, vendita di ogni generi e chi più ne ha ne metta.

Nonostante il recente approdo della nostra libreria nella rete Librerie Ubik, siamo tornati, e questa cosa dopo vent’anni mi strappa un sorriso, a una concezione di libreria “vecchie maniere”, mantenendo sia quella forte definizione di libreria di contatto, di scambio culturale ma soprattutto umano, sia il logo che abbiamo ridisegnato da poco: la bocca della verità che mio padre scelse nel 1980.

Francesco Collacchi

Ho lasciato un pezzo di vita e di giovinezza in ogni negozio in cui abbiamo lavorato: da quello di Piazza San Pietro davanti alla cattedrale, dove ho iniziato a fare i primi turni lavorativi, a passare pomeriggi in magazzino a strappare e pulire etichette dal dorso di vecchi volumi (ahahah, no non è sfruttamento, Alberto insegna il mestiere), a confrontarmi con una comunità di persone quali i lettori, ad interfacciarmi con gusti e sfumature culturali, stili di vita, vedute completamente differenti.

Il trasferimento successivo nella sede in Piazza del Gesù fu un po’ la scommessa di portare la grande esperienza del lavoro, del contatto con il pubblico ormai trentennale, dell’ormai affermata presenza sul territorio, verso una dimensione più grande ed ampia, con più piani, ascensori, spazi più grandi da gestire. Ricordo i miei tentativi di fare caffè o cappuccini e intanto indicare con la testa al cliente lo scaffale nel quale potesse trovare il Simposio di Platone, organizzare aperitivi sopra e portarli al piano -1 (dove c’era la sala del cinema) in ascensore, con goffaggine atroce.

Ecco, più che gli studi, l’università, credo mi abbia formato proprio la possibilità di essere cresciuto in una libreria, senza l’obbligo di dover scegliere COSA comprare e cosa NON: io non li pagavo i libri, certo non li portavo tutti a casa, ma li leggevo, ne leggevo un sacco, spaziavo dalla fantascienza alla musica all’horror ai classici a nozioni esoteriche, poiché c’era da pulire la collana degli Astrolabio (immaginatevi un ragazzino di dieci anni che legge storie zen o i discorsi di Osho, ma poi anche la biografia di Ronaldo, quello vero, appena uscita).
Insomma, tutto bello, ma io non sapevo più che mestiere era. Non dico che in quella fase volevo fare il libraio, eh. Anzi. Quello è arrivato dopo. Ma di certo non volevo preparare aperitivi.

Quando divenni papà, per evidenti esigenze economiche, ebbi la possibilità e la necessità di dirigere la prima libreria di mia sola gestione, in un centro commerciale. In un cen t r o c o m m e r… LA MORTE. Sì, la morte. Ho lavorato per sei anni, aperti 362 giorni l’anno. Nemmeno mi lamento tanto della clientela, nelle lunghe giornate senza luce naturale e con persone che sembrava fossero ancora sulla scala mobile anche quando erano già scese. Colleghi, amici, storie di vita, ma soprattutto “l’Educazione siberiana”, citando il buon Lilin, che deve essere alla base di un piccolo imprenditore, fatta di contabilità, tante ore morte di lavoro in cui si ha a che fare con la solitudine, le domande esistenziali, la noia e la depressione, o magari a volte il lavoro immenso da gestire dovendo contare su te stesso, principalmente.

tante ore morte di lavoro in cui si ha a che fare con la solitudine, le domande esistenziali, la noia, e la depressione.

Sono uscito da quel negozio alla fine del 2019 con una buona attitudine gestionale e manageriale, ma ho deciso di mettere tutto nella tasca della vita e ho venduto l’attività. Non volevo fare nemmeno quello, o almeno, non così. Non volevo tirare a campare altri trent’anni. Avrei potuto farlo, perché comunque le cose male non andavano. Ma avvertivo il malessere che riversavo su me stesso, perché non riuscivo a esprimermi come in realtà mi sentivo, tra quelle mura.
Ho quindi preso un periodo di tempo, la Naspi, una quota della vendita e ho iniziato svogliatamente a fare corsi e a  mandare  qualche curriculum vitae. Poi sono partito per  l’Australia, una partenza che è stata una fuga, un’esplorazione, un premio di vita, una promessa di unità d’intenti e di obiettivi  che poi non si è concretizzata, come l’idea di un eventuale futuro lì. 

Tornato infatti da quel fantastico viaggio, mio padre era alle prese con il trasloco dalla sede di Piazza del Gesù al negozio in via Cairoli, attuale sede. Soffitti di legno, luogo elegante, sinuoso, caldo, nel quale adesso si trova la Libreria. Essendo allora disoccupato iniziai ad aiutarlo nell’impostazione degli spazi, dei cataloghi, degli arredi e tante altre cose.

la mia libreria oggi è un luogo elegante, sinuoso, caldo, con soffitti di legno e tanta passione

Il lockdown successivo ha stravolto tutto. Ha stravolto la mia vita lavorativa, perché in quel momento, complice il disagio dei giornalisti italiani che non sapevamo più evidentemente di cosa parlare se non del COVID-19, la mia faccia finí su TG, riviste, quotidiani e siti, essendo io “il libraio che consegna i libri in bicicletta” ai Castelli Romani.

Nella noia di una giornata di clausura mi venne in mente questa idea per riempirmi più che altro la giornata. Chiesti quindi i permessi alle autorità locali, al mattino mi recavo in negozio dove online, inizialmente solo tramite pagina Facebook della Libreria perché io nemmeno avevo un profilo personale, raccoglievo ordini, richieste di suggerimenti, confronti su letture e su tante vicende umane, in un momento super delicato. Poi in giornata effettuavo le consegne pedalando, con i permessi del caso e con la rara possibilità di VIVERE quel periodo nonostante il lockdown.
La svolta è stata il capire di poter assolvere bene ad un compito. L’idea di poter fungere da guida, da veicolo, in chiave 2.0 come amavo dire in quel periodo tra la figura pavida e tecnologicamente out del “libraio” e della cultura rispetto ad una generazione IT devota al mito dell’immagine. Rispetto a tante belle iniziative che ho proposto, la cosa della bicicletta in sè è in realta, la cagata più grande che abbia mai fatto, ma funzionó per farmi capire quello che tento di fare e che vorrei continuare a fare.

Proprio la dimensione del FARE ha preso possesso del mio lifestyle, di quello che di lì in poi ho cercato di costruire in Libreria, dove con la massima cura alle particolarità, alle attenzioni verso il cliente, alla preparazione, si sta cercando di andare incontro alle necessità più ampie, oltreché al concetto di bellezza stesso di luogo, inteso proprio come luogo opposto ai non-luoghi in senso augeiano.

il "fare": attenzioni verso il cliente, cura per le particolarità e la preparazione

Anche fuori dal contesto di negozio, anche grazie ai tanto detestati social e vari canali di comunicazione, sto tentando di esprimere la mia rielaborazione di quello di cui mi nutro culturalmente, affacciandomi al pubblico incuriosito dalla prospettiva sconosciuta piuttosto che  intimorito dai giudizi ad personam.

Anche fuori dal contesto di negozio, anche grazie ai tanto detestati social e vari canali di comunicazione, sto tentando di esprimere la mia rielaborazione di quello di cui mi nutro culturalmente, affacciandomi al pubblico incuriosito dalla prospettiva sconosciuta piuttosto che intimorito dai giudizi ad personam.

Da queste piccole ma determinanti certezze sono nati festival letterari in tempo in cui era impossibile farne (INEDIZIONI in tempo di COVID), trasmissioni radiofoniche che parlano di viaggi e libri (PaperPlanes in 90FM su NewSoundLevel!), collaborazioni artistiche con editori, scrittori e personaggi del mondo del libro e non solo, che mi hanno colorato la vita e che hanno tappato quel senso di pochezza che mi stava da un po’ consumando.
Credo che Frascati debba avere consapevolezza e memoria di quanto abbia significato una freschezza e una vivacità culturale e artistica nel territorio in determinati momenti storici, che andrebbe però rigenerata, ponendo valori e coraggio in progetti che possano portare la Città ad essere non solo soggetto di gentrificazione, come forse in parte avvenuto, ma anche luogo (e qui torniamo a Marc Augé) in cui si crea, non più solo si riproduca.